Un’antichissima leggenda fiorita in terra d’Egitto vuole che i crateri dei vulcani siano le porte dell’inferno. La leggenda dalle sponde del Nilo passò in Grecia, di là in Etruria e poi a Roma.
Demoni fiammeggianti tormentano le anime degli empi presso Platone, Aristotele e Seneca, diavoli che sputano fuoco e zolfo, tormentano le anime dei peccatori nel mondo cristiano; l’inferno cristiano è al di sotto della terra, i crateri dei vulcani sono le porte dell’Inferno, il cratere dell’Etna è la più ampia e la più terribile di queste porte. Patrizio, vescovo Prusiense, che fu martire sotto Decio, Minucio Felice, scrittore del III secolo, Paciano, vescovo di Barcinone nel IV secolo, Girolamo nel V, Gregorio Magno nel VI, e poi ancora tutta una serie di Padri della Chiesa, affermano che coloro che muoiono nell’ira di Dio vengono tormentati e divorati nel fuoco dell’Etna.
Le leggende nate attorno al fuoco del cratere, inteso come porta dell’Inferno, sono abbastanza numerose e fin qui da nessuno raccolte. Esse sono ancora oggi raccontate dai contadini e dai pastori che abitano sulle pendici del vulcano, noi le abbiamo apprese in gran parte dalla loro viva voce, sono quelle leggende dei documenti preziosi e rivelatori di una civiltà pagana e insieme cristiana che meritano la massima attenzione da parte degli studiosi di folklore e di etnologia.
In quell’epoca in Sicilia vivevano gli uomini comuni e gli uomini giganti; gli uomini comuni, di una canna e mezza, abitavano nelle pianure, a parte di marina, si nutrivano di pesci e di pane e di frutta, e invece gli uomini giganti misuravano oltre cinquanta canne, e mangiavano carne di lupo e di orso e abitavano nelle caverne oscure dell’Etna; e se le spelonche avevano l’entrata bassa, vi entravano e vi uscivano a quattro piedi o strisciando di fianco, come fanno i contadini quando entrano nelle botti attraverso la portella, e spingono con i piedi.
Erano ancora selvaggi gli uomini giganti dell’Etna, figuriamo come dovevano essere selvaggi i caprai giganti, le barbe nere e ispide gli arrivavano sino ai ginocchi, sembravano macchie di rovo, e i capelli, neri, gli scendevano sulle spalle, arruffati e aggroppati come il crine nei materassi, quando la massaia è caiorda e non li sbatte con la verga di nocciolo. Con le barbe e i capelli lunghi, con i peli lunghi che gli coprivano tutta la schiena e le gambe-solo il sedere avevano nudo-sembravano enormi scimmioni; come gli scimpanzè, goffamente, si muovevano, spiccavano salti dal cocuzzolo di un monte al cocuzzolo di un altro, il più terribile di essi era Polifemo, della razza dei Ciclopi. Si distinguevano dagli altri giganti i Ciclopi perché madre natura li aveva fatti nascere con un solo occhio in fronte sotto un sopracciglio selvoso, l’occhio dei Ciclopi fiammeggiava rosso, sembrava un piccolo cratere in eruzione, quello di Polifemo era il cratere centrale dell’Etna, ed era Polifemo in tutte le sue azioni crudele e micidiale, la sua voce era più sorda di un boato, i suoi fischi si sentivano sino alle Calabrie, sino all’isola di Malta, dove giungevano laceravano le orecchie dei piccoli uomini, e per questo i piccoli uomini della spiaggia di Trezza, di Ognina, di Pozzillo si ficcavano nelle orecchie la màttola, il cotone sfuso; ma nell’orecchio di Polifemo si erano costruito il nido le ciaule.
Un giorno Polifemo, affacciato alla cima di un monte-come se si affacciasse a un parapetto -, si mise a guardare, sulla costa, i piccoli uomini, così come un piccolo uomo guarda talvolta le formiche per terra, e li vide gettare le reti nel mare, e prendere i pesci, e arare il terreno con i buoi, seminare le fave, piantare i broccoli, raccogliere le pere Don Santo, vide due piccoli uomini, macchè due giocattoli, che si abbracciavano e si baciavano, e si facevano mille carezze, e poi si nascondevano dietro uno scoglio, chissà che diavolo facevano nascosti dietro lo scoglio; Polifemo li spiava curioso con il suo occhio immobile, da dietro il monte; disse tra sé: – Giocano! Ed è un gioco che quasi quasi mi piace! Oh se potessi giocare anch’io a quel modo! E si mise a fischiare tra i denti, e gli uscì un fischio dal suono nuovo, modulato, quasi dolce, quasi un motivo. Dalla gioia si mise a saltare come un fanciullo; come un fanciullo dei nostri tempi. Le capre, spaventate, si arrampicavano sui dirupi più alti, pendevano dai dirupi col collo storto e di là guardavano immobili, piene di meraviglia, il loro padrone, pensavano tra sé: – Pazzo è diventato il nostro padrone!
L’amore non si mette a guardare l’età degli uomini, non ha tempo da perdere, e perciò non guarda nemmeno le loro condizioni, non guarda la loro statura; quante volte abbiamo visto mariti piccoli e mingherlini tenuti a braccio da donne alte e robuste, da circo equestre, mogli vecchie e mariti giovani, e mariti sgorbi e mogli simpatiche da fare pazziare; la gente, dinanzi a simili coppie dice: l’hanno fatto per scopo! anche se non l’hanno fatto per scopo; ma Polifemo era realmente innamorato di Galatea.
Galatea era la figlia di un pescatore di Trezza, poteva avere quindici anni, di quanto era bella si poteva bere in un cucchiaio, l’aveva vista, Polifemo, guizzare come un pesce tra gli scogli, e poi asciugarsi sulla sabbia al sole di giugno, coperta dei suoi soli capelli, biondi, più lucenti degli stessi raggi del sole.
L’ aveva vista così e quella figura non lo lasciava più, e una mattina scese dalla Provenzana, deciso, proprio deciso, a dirle che lui non reggeva più di quanto bene le voleva.
Si coperse i fianchi con cespugli di alloro, con fiori di papaveri rossi, si mise alle orecchie collane di ciliegie, e in testa una corona di spighe di frumento d’India, scendeva di balza in balza e teneva in mano per bastone un pino del Riconco, di almeno trenta canne, si cacciava innanzi le capre, le capre correvano e belavano, a ogni discesa si voltolavano giù per i canaloni sabbiosi, facevano così più presto; le gazze della Montagna a vedere Polifemo conciato a quel modo scoppiavano a ridere, ridevano facendo uno schiamazzo infernale.
Quando Polifemo fu giù, presso la spiaggia, mise un piede di qua e uno di là sulla Vampoliera, sembrava una statua immensa, attorno alle sue gambe pelose le capre incominciarono a brucare l’erba, si rincorrevano, si scontravano a cornate, capre e crasti, come antichi cavalieri a torneo, solo che non combattevano con lance e scudi, ma scoperti con le sole corna.
Polifemo vide lontana, fra due scogli, Galatea, fece un colpo di tosse, per dire, sono qua, le rivolse parole di lode: -O Galatea, fanciulla della pianura, schi sco, tu sei più dolce del moscatellone a settembre, più succosa, brist sciarèp, della polpa d’un frutto magno, dei più liscia dei massi degli sciàmmori, più lasciva d’una giumenta di due anni, che sente l’arrivo schi sco del cavallo. Dritta e snella cammini, scrisc zozzott, cammini così dritta che nemmeno se ti fossi calato un marruggio di zappone sco scrisc sciarèp.
Galatea sguazzava felice nell’acqua, sguazzava come un’anguilla, quelle parole le piacevano, ma faceva finta di non sentirle, staccava con le unghie le conchiglie dagli scogli.
Polifemo se ne doleva e così la rampognava. – Hai il cuore più duro della sciara di Bronte, sei più sorda della Provenzana quando il vento non vi mena, arèc brist; sei più veloce, quando mi scappi, di un saettone inseguito dal cane, sciòpìggh; ma ti, Galatea, ragazza puledra, non mi fuggiresti così se conoscessi tutti i miei beni, zzo zzot, sciarèb.
Polifemo allora cominciò a farle l’elenco di tutti i suoi beni: -Posseggo mezzo territorio della Montagna, scrisc, dalla spiaggia di Fondachello alla spiaggia di Ognina, barèsc, sino al pizzo di Monte Cacciatore. salendo da Tagliaborsa a Scorciavacca e di là, a Femmina Prena, prast, brisc; mio è Monte Granato rigoglioso di vigneti, abbràsc, con dolce inzolia e budella di volpe, e vi raccolgo ogni anno còfani ricolmi di pere coscia e di pomi faccia bella, senza contare, brist, le nespole del Giappone.
E ho cinquanta zàccani di pietra lavorata, e venti grotte, , e capre e crasti innumerevoli, sca, brecc, bebrècc; nelle mnie caverne tengo belle pezzotte di formaggio grosse come mole di trappeto, tengo ricotta fresca e ricotta salata, brist, e toma, brasc, arètt, zott. Ti farò mangiare ogni giorno il mussoluco, regina di mezza Montagna ti farò, brist, babrècc; se mi vorrai per sposo, Galatea, vivremo felici per tutta la vita: Arèst, bricc, trecc, zzot, sco, scrisc.
Galatea lo guardava da lontano, piccola sopra uno scoglio lucido, lo guardava e rideva, rideva con tutto lo specchio del mare attorno, il mare era calmo che pareva una tavola, improvvisamente Galatea si tuffò nel mare, lei e il mare erano una cosa sola, scomparve lesta nelle grotte marine incrostate di conchiglie, ne staccò una e la portò all’orecchia, si mise ad ascoltare la pena dele mare.
Polifemo, contrariato, rimase per un pezzo alto sulla Vampoliera, digrignava i denti. Se ne salì fischiando alla Provenzana. A sera, alla Provenzana, c’era una frescura di Paradiso, sdraiato per terra, dinanzi alla bocca della sua spelonca, Polifemo si godeva la marinella e guardava le stelle, si accorse che sulla sua testa c’era il cielo e le stelle infinite, e non poteva chiudere occhio, l’immagine di Galatea gli compariva tra stella e stella, gli compariva vestita di pelli e svestita nelle acque del mare; poi il Ciclope sente una specie di melodia tra i pini, era il vento che scorreva come un fiume sopra i pini, slargava il vento nella pianura della Provenzana, dall’ombra dei pini si avanzava lenta una figura di ragazza della marina. Ma era lei! Galatea!
Sentì un tuffo al cuore Polifemo, voleva alzarsi, voleva afferrare Galatea, abbracciarla! ma non aveva la forza, gli avevano fatto l’incantesimo, vieni, Galatea, puledra ragazza, le gridava ansimando, vieni con me, e Galatea andava docile verso di lui e poi gli accarezzava anche la barba e i capelli con mano leggera e gli toglieva dalla barba e dai capelli gli insetti, la ramaglia, gli nettava le orecchie dalle porcherie delle ciaule, voleva alzare le mani per accarezzarla Polifemo, solo per accarezzarla, ma nemmeno le mani poteva alzare, allora si arrabbiò e mise un urlo, e a quell’urlo Galatea si dissipò, improvvisa; diede uno strattone Polifemo, si alzò, e incominciò a gridare con tutta la sua terribile voce: – Dove sei Galatea? Dove sei ragazza puledra? esci fuori dal tuo nascondiglio, Galatea!
Polifemo non sapeva, meschino, d’aver sognato, non sapeva cosa fosse un sogno, mai aveva sognato prima d’allora, e per questo si aggirava nella pineta e chiamava: – Vieni, vieni, Galatea, ragazza puledra, vieni! L’alba lo colse, stanco di cercare, sulla cima del Monte Crisimo; seduto per terra sovrastava con la testa il mare verde dei pini.
Rimase per un mese alla Provenzana, il sole aveva bruciato i pascoli delle pendici, restava l’astragalo pungente della regione deserta, le capre si accontentavano di quello; il pastore era preso di malinconia, fischiava a malincuore dall’alba al tramonto, le capre se ne accorgevano, lo vedevano all’alba alzarsi e andare allo scifo pieno d’acqua, vi specchiava la fronte, l’occhio, il naso, la barba e gli sentivano fare strani discorsi: – Non sono bello, diceva, ma nemmeno brutto, e quest’occhio in fronte mi splende come il sole nel giorno e come il faro di Capo Mulini nella notte, e la barba e i capelli neri e il pelame del corpo sanno di selvaggio – è vero – ma anche di forza, e forte ci sono1 e così dicendo scuoteva i massi, massi da cento, da mille cantàra, li moveva come se fossero mazzacani, coticchioni da un rotolo, e li stringeva nelle mani e li sgretolava come se fossero di tufo d’argilla, e le capre dicevano, pazzo è il nostro padrone! e si addossavano a sera ai muri dello zàccano, avevano quasi paura ad essere munte da Polifemo, belavano addossate ai muri per tutta la notte.
Polifemo non era pazzo, era innamorato sfatto, e per questo era pazzo, e le capre se ne accorgevano. Se ne accorgevano, poverette, e sempre a loro danno. Come quando il Ciclope pensò di cambiare merco, il merco è il taglio che le capre hanno alle orecchie, a forca, a pertugio, a incaglia, a pennone, e ci sono orecchie mozze e orecchie spennate, così i pastori riconoscono fra mille le loro capre, le capre di Polifemo avevano l’orecchia sinistra tagliata a forca, ora Polifemo gli tagliava l’orecchia destra e vi incideva un cuore. E incideva cuori trafitti sui tronchi dei faggi e delle betulle, trafitti dalla freccia. E sotto al cuore incideva prima la P e poi la G, o prima la G e poi la P, e G e P non significavano Grazie Prego, – non era quella l’epoca in cui si facevano cerimonie – significavano Galatea e Polifemo, o Polifemo e Galatea, e le capre guardavano le G e le p e non ci capivano nulla, e per questo dicevano, il nostro padrone è pazzo, a Palermo se lo porteranno.
Se ne accorgevano che era pazzo senza rimedio anche dal modo come le chiamava, prima Polifemo chiamava le capre schi, sco, arèsc, brècc, brist, scrisc, zzo, zozzòt, abrèsc, prasc, bebrètt, erano suoni animaleschi, ma ad ognuna di quelle voci le capre tendevano docili le orecchie al padrone, facevano tutto quello che il padrone voleva, ora Polifemo chiamava le capre con i nomi di Fiorina, di Curmisana, di Speranza, di Stella, di Bianchina, di Reginotta; Stella, non andare sopra quel masso, che ti puoi fare male al piedino! Che hai, Fiorina, che sei così triste oggi? Senti anche tu, Speranza, la pena del tuo padroncino? Perché, Reginotta, non vai a fare il sonnetto? Parlava così, con i diminutivi, le capre non ci capivano nulla, brucavano di mala voglia, restavano giornate intere addossate a un dicco, sotto una rupe, i cani – prima sciòpiggh e ora Giulia, Diana, Cuticchio – si cacciavano le mosche con la coda, non facevano altro, era come se il padrone non ce l’avessero più.
A valle, dietro le pendici della Vampoliera screpolate d’argilla, per giornate intere, per nottate intere, Aci e Galatea se ne stavano l’uno nel grembo dell’altra, a fare la cova; si nascondevano nelle grotte incrostate di conchiglie, correvano sulla sabbia della spiaggia, zompavano nella sabbia, cadevano l’uno sull’altra, il sole gli riscaldava il sangue.
Polifemo aveva conosciuto Aci per caso; era Aci quel mezzacartuccia di pastorello, che poteva avere, sì e no, una dozzina di pecore, e nemmeno erano sue le pecore, perché lui a garzone stava, chè di suo Aci nemmeno un pezzo di spago per appiccarsi possedeva; Polifemo si era accorto di Aci un giorno che il ragazzo era passato vicino a Galatea e si era voltato a guardarla e le aveva fatto l’occhio di triglia, e Galatea aveva risposto al segnale con un sorriso. Il Ciclope non sapeva cosa potesse significare, nel mondo degli uomini della pianura, fare l’occhio di troglia a una ragazza, anche lui avrebbe voluto fare a quel modo, come Aci, chiudere un occhio, schiacciarlo e tenere l’altro aperto; ma non poteva, ahimè, perché d’occhi ce n’aveva uno solo, grosso come una bocca di fornace, ma uno solo. Ne era rimasto indispettito per qualche giorno, poi si era scordato di Aci, e intanto Aci e Galatea continuavano a covarsi, ed ebbero anche un figlio, un bamboccio biondo come l’oro; la madre lo aveva dato alla luce all’ombra di un platano, e per questo gli avevano messo il nome di Platano; tutti sapevano che Galatea ed Aci vivevano come se fossero sposati, solo Polifemo non lo sapeva, tutti sapevano che a Galatea era nato Platano, solo Polifemo non lo sapeva: è proprio vero che l’ultimo a sapere d’essere stato messo in cornice è sempre il marito.
Una sera di ritorno dai pascoli, i Ciclopi vollero dargliene la notizia, si fecero attorno a Polifemo, gli dissero sogghignando:
-Come te la senti la testa, Polifemo?
-Buona, rispondeva Polifemo, che non aveva capito l’allusione maligna; allora un Ciclope si mise a giocare a carte scoperte:
-Non so se mi sbaglio, Polifemo, ma mi è sembrato, stamattina, d’averti visto, non so, con le cime impigliate ai rami dei pini.
-Le cime? Ma di quali cime stai parlando?
-Delle cime delle tue corna! gli gridarono in coro i Ciclopi, e si spaccavano dalle risa, e si tenevano i fianchi dalle risate che si facevano.
Polifemo dall’occhio non ci vide più, una fuliggine di sangue gli offuscò la pupilla, gli parve che la luna si macchiasse anch’essa di sangue e che un vento africano sradicasse gli alberi, facendoli volare di qua e di là come fuscelli di paglia, e invece era lui che scendeva dalla Provenzana verso il mare, scendeva scuotendo nelle mani due pini accesi e vomitando fuoco dalla bocca screpolata, si apriva il passaggio tra i boschi e i monti, fracassando tutto, calciando con i piedi sanguinanti, frantumando le rupi; e le piante si torcevano come serpi sotto la grandine delle pietre infuocate, scoppiettavano come castagne al fuoco, friggevano come olio in padella. Atterriti, scappavano i piccoli uomini, con le loro masserizie sulle spalle, e gridavano è scassata la Montagna! gridavano Signore pietà! gridavano anime dei trapassati, liberateci dal Brutto Bestia!
Di tratto in tratto il Brutto Bestia rallentava la sua corsa, prendeva fiato, dal suo occhio esalavano vapori di zolfo e di pece, con i pini infocati accendeva le ginestre crepitanti, le querce, desolava le messi, bruciava i pagliai, dalle stoppie fumanti saltavano su i conigli e le volpi e le lepri, saltavano da un focolaio all’altro, morivano straziati dal fuoco, mandavano al cielo gridi laceranti.
Giunse Polifemo sulla spiaggia, che ad oriente rompeva quasi l’alba; sulla distesa lattiginosa del mare i marinai avevano ammainato le vele, assistevano incantati e paurosi allo spettacolo del fuoco, mai avevano visto uno spettacolo così grandioso e terribile. Ora Polifemo era giunto alle pendici della Vampoliera, presso il mare, spiava da ogni parte, faceva finta di dormire, scorse sulla Piana del Torrione, nascosti dietro un cespuglio di ogliastro, abbracciati l’uno all’altra, Aci e Galatea, e Galatea aveva al petto il figlio. Cacciò un urlo tremendo al cielo il Ciclope, un urlo come di mille buoi feriti a morte, e cielo e terra e mare ne rimbombarono, infuriava il Ciclope in una nuvola di polvere soffocante, scagliava massi incandescenti, l’uno dopo l’altro, Galatea scappò atterrita col figlio, fece in tempo a salvare il figlio nel mare, la seguiva, la seguiva, gridando come un disperato, Aci, un masso colpì Aci alla schiena, con una punta, lo schiacciò a terra; da sotto il masso sgorgò un rivolo di sangue, prima torbido, poi più chiaro, sino a diventare acqua purissima; Aci, trasformato in fiume, cercava Galatea, la fanciulla candida come latte, candida come la bianca distesa del mare; da allora le acque di Aci e di Galatea, confuse, mormorano e sciabordano etternamente sulle rive frastagliate di Trezza.
Ancora una leggenda in cui il cratere di Mongibello rappresenta la porta dell’inferno. Il ritornello in dialetto è comune ad altre storie di streghe e fattucchiere da noi raccolte nella zona nord-orientale dell’Etna. Come tutte le storie, anche quella della Monacaglia avrà avuto un fondo di verità; si tratta evidentemente della condanna al rogo di qualche infelice donnetta, che ignoranza di plebi predicò mavara, e fanatismo religioso consacrò alle fiamme “purificatrici”.
Mastro Giuseppe Cangemi, inteso Manazza, scaraventò per aria martello, forme e lesina e corse disperato alla Chiesa di Sant’Egidio, che era allora la Chiesa Matrice di Linguaglossa.
Prese di petto Padre Don Carmelo Crupi, ‘u parrineddu, e voleva dirgli chissà che cosa, ma si masticava le parole per la rabbia. Poi gridò che voleva lavorare, che i suoi quattro figli eran nudi e scalzi e chiamavano sempre pane, anche nel sonno, e sua moglie gli moriva in un fondo di letto e sembrava la figura della morte. Don Carmelo Crupi, dopo che Mastro Giuseppe si fu un poco sfogato, gli appoggiò amorevolmente la mano scarnita su una spalla. E lo guardò fisso negli occhi, e il suo volto patito si illuminava di un sorriso amaro: – Non disperare Giuseppe; chi si dispera si danna.Per te, per noi poveri ci ha da pensare Lui, solo Lui .Va, inginocchiati, Giuseppe; e pregalo ancora; e diglielo che i tuoi figlioli sono nudi e scalzi e chiamano sempre pane e tua moglie ti muore in un fondo di letto!
Il vecchio Cristo dalla croce tarlata schiuse gli occhi e le labbra sbiadite di polvere e disse a Mastro Giuseppe: – Lo so anch’io, Puddittu, che i tuoi figlioli sono nudi e scalzi e chiamano pane anche nel sonno e tua moglie ti muore in un fondo di letto. Don Petruzio Librandi, lo speziale, le misture le prepara solo a suon di onze e stamattina tu che di onze non ne sai manco l”dore mi hai bestemmiato, come se lo speziale fossi io Eppure ti ho già assolto, Puddittu, perché galantuomo ci sei… Ma quando le anime innocenti sono loro che ci vanno di mezzo, allora no; non basta più essere galantuomini. Ma non guardarmi così, con quella faccia spaurita da allocco. Ti ripeto che non basta più essere galantuomini. Mastro Giuseppe si strinse la testa sudata nella grossa mano e le vene delle tempie gli facevano come un martello. E il Cristo soggiunse: Che ne diresti allora se io, se proprio io, ti consigliassi – guardami! – ti consigliassi di andare a rubare?
Mastro Giuseppe si alzò e andò a buttarsi, come un sacco, nelle braccia di Don Carmelo Crupi: – Anima dannata io sono! Ladro, ladro mi ha chiamato Gesù Cristo! Ma ve lo giuro su questi occhi, Padre Don carmileddu, ve lo giuro sulla fortuna di Domenichella, che ancora non sa dire ba’ ve lo giuro sull’anima di tutti i morti del Paradiso, che io, io, Puddu Cangemi Manazza, a rubare non ci avevo mai pensato! Mai mai …mai…
E scoppiò a piangere, che pareva un vitello. Don Carmelo Crupi lasciò ancora che Mastro Giuseppe si sfogasse. Lo afferrò poi con le sue mani per le spalle, stringendo cenci e ossa, e lo staccò da sé, e lo tenne come in una tenaglia, fissandolo con i suoi occhi, limpidi e dolci: – Le vie del Signore conducono tutte alla vigna; non alla vigna dei cappelli, e nemmeno ai noccioleti dei voscenza. Ma alla vigna grande, dove il Signore non paga il sabato, ma la domenica sì. E tu che ne sai, Giuseppe! … Va, va ritorna da Lui! Inginocchiati e chiedigli a chi devi rubare il pane per i tuoi figli…
Il Cristo dalla Croce schiuse ancora gli occhi e le labbra bianche e parlava ora con un filo di voce, che pareva morto da cento anni: – A chi?…A chi?!.. Stavo già per dirtelo e tu invece sei scappato; come un ladro vero… Ma ti assolvo anche questa, Puddittu Manazza…
E richiuse gli occhi e le labbra e trascolorò. Ora la sua voce veniva come da un altro mondo: – Non bastano ostie a saziarla di me! Per questo la chiamano la Monaca Santa! Ma il nome vero è Betta Ferrara… Non bastano ostie a saziarla di me! E riaperse gli occhi e le labbra e disse con voce ferma: – Questa è religione, Puddittu Manazza!… E poi: – Domani, alle quattro, prima dell’alba, lei, la Monaca Santa, su quegli scalini, prenderà l’ostia dalle mani di Don Carmelo Crupi; e tu entraci nella sua casa, e pigliati tutto il pane che vuoi! Ma presto! Ché se ci caschi, sta pur certo che la giustizia degli uomini non ti assolverà!
Ladri o ricchi ci si nasce. E Mastro Giuseppe Manazza non era nato ricco, ma nemmeno ladro.
Quando alle quattro la campana della Chiesa di Sant’Egidio sciolse lenta i rintocchi, Mastro Giuseppe quei rintocchi se li sentì tonfare ad uno ad uno nel cuore, come nel vuoto di un catino.
Vide una mantellina scivolare lungo il muro muschioso dell”bside; si mosse, ma sentiva all’i’torno le ombre che lo trattenevano; entrò a forza nella casa; accese la lumera che portava con sé: la cassa del pane per i suoi figli era là. Tirò su il coperchio. Ma il coperchio pesava più di un quintale, e pareva di piombo, e le forze gli si incantesimarono e gli tremavano le ginocchia… Si confuse; un sudore freddo gli appiccicava i capelli sulla fronte. Sentì un rumore di passi leggeri, veloci e un fruscìo di vesti…
Mastro Giuseppe afferrò la lumera, la strinse per spegnerla nella sua grossa mano, e corse a nascondersi. E che sentì con le sue orecchie? E che vide con i suoi occhi ficcati in una fessura della madia, mentre l’ombra svuotava lentamente la stanza? Le cose tristi che gli aveva raccontato suo nonno, mentre a lui ancora ragazzo i brividi gli scorrevano per la schiena, erano storie da cristiani per quello che udì e che vide attraverso la fessura della madia. Vide Donna Bettuzza, la Monaca Santa, scoprirsi il collo, e poi giù, giù ancora, sino a denudarsi rabbiosamente il petto avvizzito e mungerselo sino a stringere i denti per il dolore e a guaire come una cagna gravida…
C’era al muro un Crocifisso di cartapesta. Donna Bettuzza gli fu sopra d’un balzo, agile come una cavalletta, e lo schiodò e si mise a sbatterlo per terra e poi se lo sbatteva sul petto, sul petto e per terra… e lo schiacciava coi piedi e gli sputava sulle piaghe del costato… E il Crocifisso rimaneva intatto, e Donna Bettuzza aveva agli occhi fuliggini di sangue.
Ora, discinta e stecchita, come un sarmento devastato dalla grandine, Donna Bettuzza era dinanzi alla cassa. Mise mano al coperchio e il coperchio si alzò su, soffice e leggero come una piuma.
C’era dentro alla cassa una pentola. Nera. E dentro alla pentola in mucchio di ostie. Bianche. Donna Bettuzza ne prese una. La gettò dentro a una padella. La padella friggeva senza fuoco, e schizzava olio… e l’ostia si scioglieva e si allargava in una macchia di sangue e in quel sangue Donna Bettuzza si bagnava il pane e se lo mangiava, e bestemmiava il sangue di Nostro Signore.
Dalla fessura della madia mastro Giuseppe vedeva ora Donna Bettuzza, al di là della finestra, nell’orto fiorito di rose rosse attorno a un altarino col Cuore di Gesù. Innaffiava le rose, e con l’altra mano si teneva stretta la mantellina nera attorno al volto che aveva il pallore della cera vergine.
Ridotto ormai ad uno straccio, col respiro che non riusciva più ad allargargli il petto, Mastro Giuseppe trovò ancora la forza di scostare da sé la madia e uscirne e si trascinò carponi sino alla porta, con lo sguardo sempre inchiodato alla figura di Donna Bettuzza che si teneva stretta la mantellina nera sul volto e innaffiava le rose rosse attorno all’altarino col Cuore di gesù… Poi scappò dalla casa maledetta, e si mise a chiamare aiuto nella sagrestia della Chiesa.
-L’ho vista io con questi occhi! continuava a gridare e si ficcava le dita negli occhi, e si disperava che Don Carmelo Crupi non gli voleva credere e se ne faceva tutte risate.
Nella Chiesa di Sant’Egidio, il giorno dopo, la messa dell’alba fu celebrata da Padre Don Concetto Di Fazio. Mastro Giuseppe Manazza e Don Carmelino Crupi, piccoli piccoli, tenendosi stretti, abbracciati per il collo, in casa di Donna Bettuzza, dietro la madia aspettavano col fiato in gola il ritorno della Monaca Santa. Donna Bettuzza Ferrara rientrò. Chiuse dietro di sé la porta, senza rumore alcuno. Poi diede inizio ai suoi magisteri. Si avvicinò alla cassa e il coperchio si alzò leggero come una piuma. Nella pentola depose l’ostia che aveva ricevuta qualche momento pima dalle mani innocenti di Don Concetto Di Fazio… Richiuse la cassa… Si tirò su le vesti, come nel Ballo delle Vergini; balzò sul Crocifisso…
Cominciava già a insozzarlo col contatto delle sue carni… stava per profanarlo il Crocifisso!…
Ah, no! Don Carmelo Crupi non ci vide più dagli occhi. diede una pedata alla madia che andò a fracassarsi in un angolo della stanza ancora nella penombra, rovesciò dall’altro lato Mastro Giuseppe Manazza, alzò in aria con la destra il suo Crocifisso che teneva sul petto e avviandosi verso quell’anima dannata tracciava nell’aria con ampio gesto il Segno della Croce: – Vade retro, Satana! Io ti scongiuro nel nome di Dio Onnipotente… mentre la calda notte sul piano di Sant’Egidio era sinistramente illuminata dai bagliori del rogo e sul sagrato della Chiesa Don Laurenzio Fiorito, Capitano di Giustizia in cappa nera, sovrastava impassibile la folla che urlava e la Monacaglia si contorceva e bestemmiava ancora nello spasimo della morte, nella fresca solitudine del Ragabo, un bovaro dei Previtera vide salire su dalle sciare di Corruccio un corteo di donne bellissime dietro al cataletto sul quale giaceva bruciacchiata la salma di Donna Bettuzza.
Non ebbe il coraggio di scappare, non ebbe la forza. Restò lì. Muto. Come uno scimunito. E quando le ragazze gli passarono accanto, sfiorandolo, e le vide trasfigurarsi, scarmigliate e pallide, e sghignazzare il ritornello maledetto:
-Semu pattuti di Spattiventu
-E sbulammu com’a lu ventu
-Ca ni potta a Muncibbeddu…
solo allora capì che quelle erano streghe; streghe che andavano a buttare il cadavere di Donna Bettuzza nel cratere dell”tna, in mezzo allo zolfo bollente. All’alba non bevve più latte; tutti i cibi gli vennero a nausea. Di lì a qualche giorno lo trovarono addossato a una roccia, con ai piedi il suo bastone di perastro. Morto. Il corpo si disfaceva in un sudicio nuvolo di mosche ronzanti. Una nuvolaglia densa di fumo aveva oscurato il cielo, trascolorò il sole e divenne sanguigno e un boato trascorse sordamente per le pendici screpolate dell’Etna; si precipitavano giù a valle gli uomini, i contadini e i pastori dell’Etna, trascinandosi dietro gli arnesi da lavoro, tra i greggi mugghianti e le capre impazzite, e ululavano rabbiosamente i cani in un inferno di ceneri infocate, di scosse rovinose, di bagliori cupi e accecanti.
-Tornate, tornate indietro, disgraziati!… È scassata la Montagna; la sciara entra come serpente nei nostri pagliai. È il giudizio di Dio, è la morte!
Ma Anfinomio e Anapio, splendidi di nero sudore, guizzanti nei muscoli, con la tempesta nel petto, sfuggivano come due nibbi alle mani che volevano agguantarli, e salivano. Salivano disperatamente incontro alla morte e contro la natura spietata. E lì trovarono i due vecchietti paralitici, stretti ad un angolo della capanna incartocciata e fumosa, abbracciati e in attesa della morte, e recitavano le litanie, ed erano quasi felici che i loro figli fossero in salvo.
-Padre, madre! Che non sentite? Noi siamo! Siamo qui, i vostri figli! Anfinomio e Anapio…
Il torrente di lava stava già per rotolare sulla fragile capanna, si contorcevano tutte le travi della capanna fragile, si caricarono i Fratelli Pii sulle forti spalle i loro vecchi genitori e corsero giù anch’essi verso la vallata. Quando si voltarono a vedere per l’ultima volta la loro casa che si inceneriva tra il fumo e le fiamme, sentirono appesantirsi le gambe, barcollanti e atterriti si fermarono; ma il fuoco non lo maledissero…
Poi fu un’impari lotta tra la furia devastatrice della natura e la fragile forza degli uomini, vinse la natura e il torrente stava per investire i fratelli; ma la loro pietà aveva vinto nel cospetto di Dio onnipotente, si divise il fuoco in due ampie ali, avvolse di una corona rossa d’amore i due giovani carichi del loro pietoso fardello, li accompagnò per tutta la notte, li consegnò incolumi all’alba che schiariva tra cielo e mare, alla memoria commossa della gente della Montagna, al trascorrere lento dei secoli… Lassù, oltre i Pizzi Deneri, il vento ricanta nella solitudine desolata l’immortale leggenda, e i fratelli Pii, sotto i loro manti oscuri di sciara, vigilano, sacerdoti immortali, a guardia dei penetrali del Dio.